Carmen Winant e la pratica di un femminismo costruttivo – di Sofia Masini

Notes on Fundamental Joy (Printed Matter, 2019)
Carmen Winant (San Francisco, 1983) è un’artista, scrittrice e docente americana. Nella pratica artistica usa e rielabora immagini altrui per creare installazioni, collage e libri. Il suo obiettivo è studiare e analizzare il femminismo e le sue diverse forme di sopravvivenza e ribellione. Ha esposto al MoMA di New York un’installazione di 2.000 fotografie d’archivio dal titolo My Birth (Being: New Photography 2018, dal 18 marzo al 19 agosto 2018), dove altrettante donne, tra cui sua madre, sono ritratte nel momento del parto. Le immagini provengono da libri, riviste, manuali o archivi collettivi.
Winant ha pubblicato tre libri: My Life as a Man (Horses Think Press, 2015), My Birth (ITI Press e SPBH Editions, 2018), e l’ultimo, Notes on Fundamental Joy; seeking the elimination of oppression through the social and political transformation of the patriarchy that otherwise threatens to bury us (Printed Matter, 2019).

Il mio primo incontro con Carmen Winant è avvenuto in libreria, attraverso My Birth. Un volume elegante e apparentemente innocuo, che poi ti prende allo stomaco costringendoti a guardare le immagini di un momento assolutamente privato e intimo, di solito totalmente nascosto agli sguardi altrui e praticamente mai rappresentato nella storia dell’arte: il parto. Un processo naturale e universale, che Winant ci mette letteralmente davanti agli occhi, compiendo un’atto di svelamento dalla portata politica e sovversiva.
(come dichiara anche nell’audio di presentazione della mostra, disponibile sul sito del MoMA: farsi fotografare nel momento del parto è un atto politico)
Ho voluto saperne di più.
In una interessante intervista rilasciata a Jordan Weitzman per Magic Hour (disponibile in podcast qui) Winant spiega la sua pratica artistica. Le fotografie nel suo studio, racconta, sono sparse per terra, in un disordine che vuole favorire degli incontri casuali tra le immagini. Abitudine che conserva fin da adolescente quando, come tanti coetanei, era solita tappezzare la sua stanza di tantissime fotografie. Tanto che un suo grande rimorso è non averne documentazione: non ha mai fotografato, nemmeno in parte, questa sua prima ‘installazione’.

Le immagini hanno una fisicità che per l’artista è un aspetto fondamentale: il suo processo creativo privilegia il disordine sull’ordine e questi veri e propri incontri con le fotografie. Molto spesso le sue installazioni sono caotiche e fortemente immersive, composte da migliaia di immagini che si succedono in modo piuttosto sporco sui muri di grandi gallerie e musei in tutto il mondo. Queste opere mettono in scena il lungo lavoro che la Winant fa nel suo studio, guidata da un rapporto fisico, quasi sensuale con l’oggetto-immagine. Nell’intervista ripete più volte questa frase: avevo bisogno che il mio corpo entrasse in relazione con il materiale. (I needed to bring my body in contact with the material). Quindi, le immagini per lei non sono qualcosa che deve piegarsi all’intenzione di un artista-dittatore che ne ha deciso a priori il senso. Tutt’altro: è l’artista che con il proprio corpo ha bisogno di entrare in contatto con le cose al fine di farne emergere la voce. Quest’atto di gentilezza e rispetto per le fotografie è davvero ammirevole, soprattutto per un’artista che usa e rielabora immagini altrui. Prima di dedicarsi alla carriera artistica, Winant era una sportiva e praticava la maratona. Viene spontaneo pensare che sia stata proprio quest’esperienza ad insegnarle ad affidarsi all’intuizione e ad ascoltare il corpo, permettendole di canalizzare una pratica artistica apparentemente caotica e fortemente intuitiva in oggetti così concisi e puliti, profondamente razionali.
Sicuramente le ha regalato quella buona dose di perseveranza e determinazione che è fondamentale per farsi strada nel mondo dell’arte, una specie di maratona a ostacoli – con annessa ricerca di sponsor – dove spesso le donne partono con qualche posizione di svantaggio rispetto agli uomini.

Il suo ultimo libro Notes on Fundamental Joy; seeking the elimination of oppression through the social and political transformation of the patriarchy that otherwise threatens to bury us (il titolo è lunghissimo) è un lavoro che raccoglie le fotografie d’archivio degli Ovulars, laboratori di fotografia che si tenevano nei primi anni ’80 in alcune comuni che adottavano la pratica del separatismo femminista, situate sulla costa nord-occidentale americana (gli stessi luoghi dove nacquero i primi movimenti hippie e di ritorno-alla-terra, nella zona dell’Oregon, per intenderci). Il volume raccoglie gli scatti di una serie di artiste note: JEB, Clytia Fuller, Tee Corinne, Ruth Mountaingrove, Katie Niles, Carol Osmer, Honey Lee Cottrell, che hanno documentato la vita di una comunità di donne strette nell’abbraccio collettivo del movimento.
Il libro però non è solo la testimonianza di quell’esperienza radicale – che prevedeva l’esclusione totale del maschio – ma anche il racconto di un mondo in cui la donna si poteva esprimere liberamente e con gioia. E’ proprio il sentimento che si riflette nella leggerezza e trasparenza della carta usata nel libro, che permette alle fotografie di sovrapporsi in modo agile, creando un dialogo fluido nella sequenza. La voce dell’artista accompagna lo sfoglio con una riga di testo sul fondo di ogni pagina, formando un discorso nella sequenza. E’ come se le tante donne si riunissero qui, all’unisono, in un coro di voci libere e rilassate. Le immagini dei loro corpi che si mettono alla prova confrontandosi con la fotografia sono la cronaca di un clima creativo e disteso in cui la donna è padrona di sé e non ha timore di mostrare le proprie fragilità.
Il libro è bellissimo, poetico, gentile e allo stesso tempo forte e coraggioso nelle scelte.
In una conversazione tra Carmen Winant e Lesley Martin per Aperture (disponibile qui ) emerge come il tema principale di questo lavoro sia la presa di coscienza del potere fondamentale dell’immaginazione.
Un movimento politico, sostiene Winant, riesce a concretizzarsi solo nel momento in cui diventa costruttivo. Usa il termine world-building, ovvero capace di costruire un mondo (immaginario?). Le femministe di ieri avevano la capacità di immaginare la creazione di un mondo nuovo, completamente diverso dal precedente, nel quale il patriarcato era stato proprio eliminato. Il movimento dunque era politico e strettamente legato all’idea d’azione. Oggi, riflette Winant, il femminismo sembra essersi come diluito e allo stesso tempo però, proprio come un liquido, si è espanso a raccogliere consensi sempre più ampi: oggi siamo tutte femministe. E’ bello che sia diventato una sorta di dovere civile, ma manca un’agenda politica, un programma d’azione, degli obiettivi concreti. L’immaginazione, prosegue Winant, è il primo passo per mettere in pratica le proprie intenzioni (ricordate lo slogan l’immaginazione al potere?) E proprio questo libro, Notes on Fundamental Joy, riesce a immaginare e raccontare un mondo in cui le donne non hanno bisogno dell’uomo per piacersi ed essere viste, dove la fotografia diventa un mezzo per trovare ed esprimere il proprio sé, non per sedurre o compiacere altri.
Sbiadisce allora la teoria che siamo tutte femministe: purtroppo questa realtà infatti rimane solo immaginata ma è proprio tramite le immagini, e i libri – materiale da sempre dedicato alla divulgazione – che tutte (tutti) insieme possiamo sognarci davvero indipendenti dallo sguardo e dai giudizi altrui.

Esattamente il contrario rispetto a quello che provo quando, per esempio, capito di fronte alla parola feminist ricamata sulle mutandine che avvolgono i glutei di ragazze perfette su Instagram. Come mai questa parola viene usata sempre più frequentemente ma continuiamo ad accettare che ci sia un ampio divario tra gli stipendi uomo – donna, e non facciamo nulla di concreto per cambiarlo? (no, un like alle mutandine femministe non basta).
Il femminismo di oggi non ha più gli stessi obiettivi e strumenti di quello delle nostre nonne, è vero. È figlio di un’ altra epoca, di nuove consapevolezze, di nuovi strumenti. Le donne di oggi reclamano la libertà di esporre e mettere in scena da sole il proprio corpo, ma troppo spesso finiscono per utilizzare l’erotico come mezzo per attirare l’attenzione e non per esprimere la propria sensualità, spesso – tra l’altro – soltanto simulata. Il risultato sono immagini banali, che non veicolano un contenuto o l’espressione di un sentimento. Inoltre, molto spesso, tutto si riduce a una semplice pubblicità (anch’io ora voglio le mutandine femministe!).
È facile quindi che reclamando l’autonomia del corpo femminile con le tecniche e gli strumenti dello sguardo maschile, il messaggio si annacqui e infine si perda. Forse le nostre madri un po’ di ragione ce l’avevano quando il motto era: ‘gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone’ (‘The master’s tools will never dismantle the master’s house’, dall’omonimo saggio di Audre Lorde, poetessa e scrittrice statunitense). Insomma il femminismo non è un brand formato da uno sterile immaginario a cui basta aderire, né un moodboard-contenitore in cui si può inserire di tutto e modificare seconda della stagione. Insomma che fine faranno le t-shirt We Should All Be Feminists firmate Dior (in edizione limitata e vendute a 620 euro) tra qualche anno? Le troveremo in qualche outlet?

Carmen Winant usa strumenti e pratiche assolutamente originali per parlarci del femminismo e del femminile e forse questo è uno dei motivi per cui il suo lavoro è così forte e originale. Nella produzione ossessiva di immagini è capace di mettere in ordine facendo disordine, a volte perfino distruggendo, imponendoci di riflettere sul modo in cui la donna si rappresenta e viene rappresentata, giocando con una serie di cliché visivi a cui ormai siamo talmente abituati da considerarli normali.
Con le sue opere, ci spinge ad acquisire consapevolezza rispetto a una serie di fatti, di verità, invitandoci a accettarci per quello che siamo veramente e a lottare per i nostri diritti, qui e ora.
Quest’artista con poco più di 35 anni, una brillante carriera e due figli, sa prenderci per mano, a volte ci schiaffeggia, spesso ci riempie di domande, ma non ci permette mai di voltare la testa dall’altra parte e passare semplicemente oltre. E’ come se fosse in grado di riportare l’attenzione su quello che conta davvero, spingendoci a reclamare una libertà, visiva e di pensiero, che ci spetta di diritto. Quando si tratta di libri, tutti possiamo possedere e approfondire un pezzettino di questo processo, ed è un regalo bellissimo da fare a nonne, mamme, papà, mariti e nipoti. Il traguardo è sempre più vicino, ne sono convinta, basta solo un altro piccolo sforzo.
Milano, 8 marzo 2020
Nata nel 1991 a Madrid, Sofia Masini vive e lavora a Milano. Si è laureata in Scienze dei Beni Culturali all’Università Statale di Milano, proseguendo poi la sua formazione con un Master in fotografia allo IUAV di Venezia. I suoi lavori spaziano dal nudo al paesaggio, toccando temi come l’identità, il rapporto con il proprio corpo, la bellezza e l’intimità. Fotografa freelance, lavora nel campo dell’editoria fotografica collaborando stabilmente con la libreria e galleria Micamera di Milano e con la casa editrice Humboldt Books.
Link
Magic Hour – intervista
Aperture – What is a Feminist Photobook?
Aperture – Our Bodies, Online
Carmen Winant – il sito
MoMA – la mostra
Elvira Vannini – L’arte femminista non è un brand Dior