La Carta è il Territorio – di Eugenio Tonoli

Questi spazi […] li abbiamo trasformati in una scrittura plurale […] Di tale “geografia”, abbiamo dimenticato che siamo noi ad esserne gli autori.
– Georges Perec (Specie di Spazi, 1989)
La fotografia di un guscio essiccato irto di spine apre la sequenza del libro di Mike Slack The Transverse Path (or Nature’s Little Secret); a quest’immagine segue la fotografia di una finestra scattata dall’interno, in cui gli elementi di verticalità e orizzontalità della griglia di una zanzariera vengono contrastati dal movimento fluido e apparentemente senza direzione di un tralcio rampicante.
A fare eco alla filigrana della zanzariera è l’intrico di parole e numeri che si propaga sulla superficie di una cartina geografica fotografata in controluce: la prima immagine della sequenza principale.
“Se le porte della percezione fossero ripulite tutte le cose ci sembrerebbero infinite” scriveva Luigi Ghirri, parafrasando William Blake, nella prefazione di Atlante (1973); ed è proprio sul percepire il mondo che le fotografie di Slack si concentrano, esplorandolo a fondo nella convinzione che qualsiasi oggetto, dai cespugli al polistirolo, dal cemento all’acciaio all’acqua, dal muschio alla gomma, siano da considerarsi Natura.

Il romanzo La Carta e il Territorio di Michel Houellebecq ha come protagonista Jed Martin, un artista che ha esordito nel mondo delle gallerie con una serie di fotografie raffiguranti dettagli di carte geografiche (vi ricorda niente?).
Ormai vecchio e isolato dal mondo esterno, Jed trascorre il tempo dedicandosi alla sua mastodontica opera d’arte finale: un intricatissimo video all’interno del quale confluiscono, grazie ad un software programmato appositamente, migliaia di clip raffiguranti elementi naturali provenienti del parco della sua villa e oggetti che lui definisce “industriali” (televisori, computer e qualunque cosa contenga componenti elettronici).
Questi ultimi vengono ripresi per giorni e giorni mentre subiscono un processo di deterioramento tramite l’utilizzo di acidi; i vari frammenti video sono poi intrecciati gli uni agli altri, fondendo tra loro natura e artificiale: “campi lunghi ipnotici in cui gli oggetti industriali sembrano affondare, sommersi progressivamente dalla proliferazione degli strati vegetali. Talvolta danno l’impressione di dibattersi, di tentare di tornare alla superficie; poi sono travolti da un’onda di erba o di foglie, ripiombano in seno al magma vegetale, nello stesso momento in cui la loro superficie si disgrega, lasciando apparire i microprocessori, le batterie, le memory card.”

Nel leggere per la prima volta la descrizione di questa lotta impari, un’immagine si è fatta strada a forza nella mia mente: un microchip semi-affogato nell’erba incolta, che Slack pone nella sequenza del suo libro subito prima della fotografia di un muro sovrastato da una nuvola rotondeggiante, la rigida e ripetitiva geometria dei mattoni contrapposta alla libertà leggera ed in perpetuo mutamento della nuvola.
In maniera analoga al protagonista del romanzo di Houellebecq, il quale con la sua opera finale desidera “rendere conto del mondo… semplicemente rendere conto del mondo”, Slack penetra in profondità nella stratificazione del reale, consapevole che quello che comunemente definiamo “reale” è frutto della percezione di ogni singolo individuo, un illusorio gioco di specchi in cui l’essere umano, anch’esso un pezzetto di Mondo, tenta di indagare, catalogare e controllare ciò che lo circonda come se gli fosse estraneo.
Spesso, nel corso della sequenza di The Transverse Path, compaiono immagini che rimandano a componenti anatomiche viscerali e inquietanti nella loro familiarità, come se il mondo mescolasse costantemente i suoi componenti per risputarli in seguito sotto forme diverse: un fascio di tubi in gomma rivestiti da una guaina screpolata dal sole, cavi di ferro e un materasso di gommapiuma arrotolato su se stesso richiamano muscoli, tendini e morbidi strati di pelle, la copertura in tegole di catrame di un tetto ricorda il ventre squamoso di un rettile gigantesco, un intrico di fili di lana di mille colori e dimensioni rimanda al tessuto stesso della realtà, simile al labirinto di vene e capillari che si dipana al di sotto della nostra pelle, tutt’ora sconosciuto per quanto esplorato e sondato di continuo.

Di tanto in tanto un elemento si intromette nella sequenza a squarciare il velo di ambiguità e sospensione che caratterizza le immagini: è il caso della tessera azzurrina di un puzzle, fotografata sullo sfondo del terreno arido e screpolato, che ci ricorda di come le rappresentazioni della realtà vadano a formare, nel loro insieme, un’immagine del tutto simile a quella di un mosaico composto da infiniti tasselli, la quale però “non diventa soluzione dell’enigma, perché lo stesso puzzle ricomposto viene rimesso di nuovo nel flusso dell’esistenza, e diventa ulteriore tessera da collocare.” (Luigi Ghirri, dall’introduzione a Vedute 1970-79)
Le immagini di Slack rimandano costantemente al rapporto tra ‘vero’ e ‘finto’, ‘naturale’ e ‘altro’: piante sintetiche e un campionario di pelli artificiali dai colori innaturali (su cui capeggia la scritta “Matrix Collection”) si alternano a vedute in cui le tracce della presenza umana quasi scompaiono, inghiottite dal paesaggio. Un nido di ragno che fa capolino dall’erba secca nelle prime pagine riappare verso la fine della sequenza, la ragnatela tramutata in brandelli di plastica opaca; un lampadario rotondo ondeggia nella luce del sole morente, la sua ombra proiettata sul muro presenta tutti i misteri dell’universo a chi si fermi ad osservarla.

Ogni singola fotografia che facciamo rappresenta un granello minuscolo ed in continua transizione all’interno della realtà che ci circonda. Intese come rappresentazioni del mondo da parte di se stesso, le fotografie divengono quindi metafora perfetta di ciò che l’Uomo è: un solitario frammento di tempo, isolato nello spazio dalla luce.
Ne parliamo con Mike Slack
La citazione del filosofo e scrittore Vilém Flusser alla fine del libro ci aiuta a capire le considerazioni generali alla base di questo tuo lavoro: “La realtà è una rete di relazioni concrete. Le entità che popolano l’ambiente non sono altro che nodi di questa rete e noi stessi siamo nodi dello stesso tipo”. Quando hai iniziato a riflettere sul tema del rapporto tra uomo e natura e sulla nostra percezione di questo rapporto? Come è nato questo lavoro, hai iniziato rivisitando il tuo archivio e notando che alcuni elementi “rimavano” tra loro o sei partito da zero?
Mi piace che iniziamo dalla fine e grazie di aver citato quella frase – tratta da un libro davvero folle di Flusser sul calamaro vampiro. Nel periodo in cui lavoravo a The Transverse Path leggevo molto Flusser e anche i primi libri di Timothy Morton. Molte fotografie sono nate prima e non possono quindi essere una risposta alle letture. Probabilmente le stesse ragioni per cui sono stato attratto da questi scrittori mi hanno spinto a fotografare i soggetti e le scene che poi sono confluite in The Transverse Path: una curiosità generale sulla natura delle cose – le “entità che popolano l’ambiente” – e su come usiamo aggettivi come “organico” e “sintetico” per descriverle, intendendo sia le persone che le loro menti o emozioni. Come fanno a diventare ciò che sono, e in quali modi si scompongono e modificano? C’è un unico processo o un “sistema operativo” alla base di tutto? Mi accorsi che scattavo molte fotografie in cui ciò che definiamo “organico” o “sintetico” condividevano in qualche modo l’inquadratura, e ho iniziato a spingere su questa dicotomia in modo più intenzionale, cercando di realizzare immagini in cui l’apparente linea di demarcazione tra uomo e natura diventa più labile o fumosa, usando la macchina fotografica per ascoltare quel dialogo e in qualche modo tradurlo. In seguito questo approccio si è esteso ad altri dualismi: la composizione della luce, descritta al contempo come onda e flusso di particelle, o anche altri più basilari come luce-ombra e terra-cielo. Questa curiosità generale ha portato a quello che è diventato The Transverse Path, e il commento di Flusser sulla realtà come “rete” ha contribuito alla struttura portante.

Passiamo dunque all’inizio del libro: da dove viene il titolo? Mi piace il fatto che il sottotitolo – or Nature’s Little Secret – renda il tutto ancora più ambiguo, lasciandoci vagare tra le pagine alla ricerca di una risposta sfuggente invece di indicarci una direzione precisa (come di solito fanno i sottotitoli).
E a proposito di ambiguità: in una delle ultime pagine scopriamo che le immagini sono state scattate in molti luoghi, negli Stati Uniti e all’estero, nell’arco di 6 anni, ma la sensazione che si prova sfogliando il libro è comunque quella di un unico viaggio solitario e senza sosta (a piedi, nella mia immaginazione) attraverso questa regione desertica dai tratti quasi post-apocalittici, nel disperato tentativo di raccogliere brandelli di quel dialogo senza voce di cui parlavi prima.
Come mai sei attratto dal deserto, dagli spazi vuoti e dalle cose che paiono abbandonate?
Ci sono state decine di titoli provvisori per il libro, ma continuavo a tornare alla parola “path” (sentiero). Per un po’ mi è piaciuto Shining Path, fino a quando non sono inciampato nell’espressione “a transverse path” in un libro di Deleuze e Guattari e mi è rimasta impressa. Non ha una definizione precisa, può riferirsi al vagabondaggio, all’attraversamento, al legame tra le cose, a una certa poesia, all’obliquità – e pone allo spettatore una domanda, quasi un indovinello, prima ancora di aprire il libro. Anche “Nature’s Little Secret” pone una domanda: qual è il segreto? Esiste forse una sorta di messaggio in codice che la macchina fotografica può decifrare? Adoro anche Slaughterhouse-Five (or The Children’s Crusade) di Vonnegut, o la serie di dischi ambient di Brian Eno (Ambient 1: Music for Airports, etc). Mi è sempre piaciuto dare un doppio titolo ai miei libri: il mio terzo libro di polaroid, per esempio, si chiama Pyramids (or Bright Future).
Per quanto riguarda l'”apparentemente abbandonato”, sono sempre stato attratto da aree dismesse, vicoli secondari, terreni abbandonati e incolti, zone periferiche: tutti luoghi che il nostro cervello trascura o rifiuta automaticamente, oppure che evitiamo fisicamente perché “lì non c’è niente”. Non so da dove derivi questa affinità, ma con quella sorta di rumore di fondo, con i loro universi invisibili attraggono il mio “io fotografico” perché sono così ricchi di relazioni inaspettate. Il deserto in particolare è affascinante perché tutt’altro che vuoto: è selvaggio, brulicante di vita e di cose senza nome che vivono e muoiono intrecciandosi e mescolandosi in quest’ambiente aspro e duro. C’è qualcosa di post-apocalittico, che ricorda l’atmosfera bruciata dal sole di un film di Mad Max, ma nel profondo resta la sensazione che questi paesaggi in cui l’uomo non osa vivere siano in qualche modo al di là della portata mentale quotidiana della gente, come se qui le leggi della natura fossero completamente libere, anche da una meta o uno scopo e noi venissimo in qualche modo travolti da un flusso incomprensibile. E quando parlo di “deserto” intendo sia luoghi macroscopici come il Mojave e il Sonora, ma anche microcosmi in cui possiamo ritrovarci nelle città e nei paesi, come l’androne di un palazzo in cui si sono accumulati polvere e detriti o la luce del sole che scintilla sulla superficie dell’acqua in un canale di scolo qualunque.
È strano sfogliare il libro oggi, anni dopo aver scattato le immagini, perché sono consapevole di quanto materiale sia stato scartato, delle innumerevoli modifiche, di come fosse la mia vita personale all’epoca e degli sviluppi storici di quei sei anni; eppure, anche a me, il libro pare il resoconto di un singolo viaggio solitario – a piedi, come scrivi tu, o una sorta di viaggio mentale – un po’ come succede quando un sogno o un ricordo inventato diventano così familiari da sembrare realmente accaduti, o nel modo in cui certe fotografie possono sostituirsi ai nostri ricordi reali.

A proposito di editing e di relazioni inaspettate: ci sono state immagini che si sono rivelate cruciali per la sequenza e che ti hanno fatto capire che questa serie di fotografie avrebbe potuto funzionare in un libro?
Sei anni sono tanti, anche per un progetto fotografico a lungo termine, e molte cose possono mutare, anche solo a livello personale, causando un cambiamento di direzione o di prospettiva. Come si è evoluto il tuo rapporto con il progetto durante tutti questi anni di raccolta e di editing del materiale?
La tessera azzurra del puzzle nella terra screpolata è una delle prime fotografie importanti, insieme a quella della piscina piena di terra. Ma il libro non è stato costruito a partire da immagini singole, è stato piuttosto un lavoro associativo: alcuni aspetti di una fotografia, nella sua “profondità”, ne richiamavano altri e così via. Alcuni gruppi di immagini sono diventati inseparabili per varie ragioni e a loro volta si sono intersecati con altri, come costellazioni in cielo. Poi è stata solo una questione di selezione e di lavoro sulla sequenza, di trovare un ritmo tra una pagina e l’altra, in modo che questi echi non lineari potessero essere percepiti nella forma lineare del libro – che ha un inizio e una fine – e che il tutto avesse una certa coerenza, formando una rete di associazioni più o meno libere.
Per circa un anno ho avuto in mente un libro con molto testo e inizialmente ho sviluppato varie versioni in cui le immagini si alternavano a blocchi di testo auto-generato. In seguito traducevo i testi in inglese o in esperanto usando un’applicazione e poi ne riscrivevo il contenuto cercando di renderlo più chiaro e mantenere un equilibrio tra elementi di senso compiuto e un certo rumore di fondo casuale, alternando senso e nonsenso… Alla fine il risultato era solo una gran confusione, forse troppo personale. Avevo bisogno di quelle parti scritte mentre mettevo in sequenza le immagini, ma quando ho eliminato tutte le caselle di testo le immagini mi sono sembrate improvvisamente più vive e autonome. A un certo punto, con il passare del tempo, le immagini hanno perso anche il loro aspetto fattuale e si sono trasformate in finzione.

In conclusione: c’è stata qualche influenza fotografica che ti ha particolarmente aiutato a dare forma a ‘The Transverse Path’, intendendo sia il progetto nella sua interezza che il libro come oggetto (formato, copertina, ecc.)?
È difficile dirlo. In quel periodo ero regolarmente in contatto con Ron Jude, Ed Panar e Tim Carpenter, anche se non vedo grandi somiglianze nei nostri lavori (a parte l’atmosfera desertica di Lago di Jude e forse il ritmo della sequenza). Il formato e la copertina del libro sono un riferimento al classico quaderno di scuola americano, con il dorso a nastro nero e la copertina marmorizzata.
Lo stile della rilegatura è ispirata a un libro intitolato The Kindred of the Kibbo Kift. Non ho fatto studi specifici di design, né di fotografia o curatela; nel mio caso si tratta soprattutto di un processo, più o meno consapevole, di osservazione e imitazione: intreccio idee diverse finché non sento che il lavoro è concluso.

Eugenio Tonoli ha 25 anni e abita a Milano.
Ha studiato fotografia presso IED Milano e ha conseguito un master in Editoria presso l’Università di Verona.
La sua pratica fotografica è focalizzata su progetti personali a lungo termine, con particolare attenzione al rapporto tra paesaggio e memoria.
Da qualche tempo collabora con Micamera.
Mike Slack è nato nel 1970, vive e lavora a Los Angeles, California. Dopo una laurea in letteratura e linguistica inglese e in concomitanza con una carriera nell’editoria di libri, ha iniziato la sua pratica come autodidatta in fotografia alla fine degli anni ’90, nel 2006 ha co-fondato la casa editrice The Ice Plant.