“Se non fosse stato per il cromo, qui i corvi avrebbero cantato”
La prima volta che Elton Gllava mette piede a Bulqizë è il 2013. Da allora, continua a tornarci per l’arco di cinque anni. Quando ricorda le sue prime esplorazioni del luogo, Elton parla di fatica, freddo e incomunicabilità. Dopodichè, gli occhi si illuminano, inizia a riportare aneddoti che parlano di resilienza, di piccoli successi, di affetti e famiglia.
Bulqizë è una piccola cittadina non lontana da Tirana, in Albania, conosciuta come la città dei minatori. Dopo la scoperta della presenza del cromo, nel 1939, e l’apertura delle prime miniere nel 1948, la città è diventata la terza produttrice mondiale di questo minerale.
Da allora, ogni mattina, momento della giornata forse più rappresentativo della vita in Bulqizë, con i primi bagliori dell’alba gli uomini, quasi tutti minatori, aprono le porte di casa e si affacciano sull’unica strada della cittadina, rassegnati a sfidare il freddo e la neve per compiere i loro gesti quotidiani, fatti di ripetizione, di oscurità, di polvere e di ossessione. Bevono un caffè, tutti sempre nello stesso bar. Poi, accompagnati dagli abituali movimenti meccanici, sprofondano nelle miniere.
Elton compie la scelta coraggiosa di usare la pellicola per il suo lavoro, nonostante la difficoltà delle condizioni di luce all’interno delle miniere. Anche grazie a questa scelta riesce a riportare perfettamente la sensazione di non riuscire a vedere, di soffocamento, di angustia. Le entrate di luce, fallimenti della macchina fotografica irrimediabilmente impressi sulla pellicola, che però risultano provvidenziali per la narrazione, scandiscono il ritmo del racconto di Elton. La maggior parte dei fotografi avrebbe scartato quelle fotografie, giudicandole “sbagliate”, ma è proprio grazie a questo genere di “errore” che il ritratto del ragazzino dal collo tatuato diventa icona sacra, con il suo alone di luce che ci catapulta in un altro contesto, lontano dal nero, dal cromo, dalle miniere.
Il lavoro di Elton parla di una comunità che, malauguratamente o per fortuna, nasce inconsapevolmente su una montagna che è una miniera d’oro per le potenze capitaliste, e che probabilmente verrà sfruttata fino al midollo.
Come disse il vecchio sul ciglio della strada “Se non fosse stato per il cromo, qui i corvi avrebbero cantato”. E sono proprio i corvi a dettare il ritmo della narrazione, dello scorrere delle pagine. Nonostante la loro simbologia storicamente correlata alla morte, i corvi ci accompagnano nella scoperta di Bulquizë, mostrandoci, magari senza voce ma profondamente liberi nell’alzarsi in volo, quante forme di resilienza esistono anche nei più controversi angoli di mondo.