Le fake news permeano il mondo del web rimbalzando all’impazzata ovunque nello spazio virtuale che ne risulta oramai saturo. Che si tratti della presunta morte, gravidanza oppure fidanzamento di una persona nota; nascono, diventano virali arrivando a milioni di persone per poi morire e finire per essere dimenticate oppure relegate in un vero e proprio limbo: un purgatorio post moderno. Sbeffeggiano il fact-checking (o presunto tale), appropriandosi degli spazi di autorevoli testate giornalistiche che ne ripropongono i dettagli allugandone notevolmente l’aspettativa di vita.
Il 2016 ha visto la fine del secondo mandato del primo presidente afroamericano che gli Stati Uniti abbiano mai avuto, presidente il quale è stato in grado di raccogliere un generale apprezzamento da parte degli elettori durante i suoi otto anni di governo. Il momento di decretare la persona che gli avrebbe succeduto era quindi arrivato: gli USA sarebbero rimasti fedeli ai democratici oppure avrebbero abbracciato gli ideali repubblicani incarnati dal tycoon Donald Trump riassunti nel contraddittorio slogan “Make America Great Again” ? a trionfare sarà proprio quest’ultimo. Insomma, da un cameo in “Mamma ho ripreso l’aereo: mi sono smarrito a New York” allo Studio Ovale il passo è breve.
Veles, una cittadina macedone quasi disabitata, povera e poco attraente per gli investitori, si è imposta nel 2016 sulla scena mondiale come fabbrica di notizie false durante la campagna elettorale statunitense nel corso della quale giovani hacker hanno generato centinaia e centinaia di siti clickbait con lo scopo di guadagnare dagli inconsapevoli utenti riuscendo in fine ad incassare ingenti somme di denaro e finendo addirittura per favorire la vincita del rappresentante repubblicano.
Da questi presupposti nasce “The Book of Veles” del fotografo norvegese Jonas Bendisken, il quale si pone l’obiettivo di indagare criticamente il fenomeno ma nel farlo rivela una serie di scomode verità circa la sua stessa professione.
