Real Men Don’t Recycle – di Giorgia Zaffanelli

Real Men Don’t Recycle – di Giorgia Zaffanelli

Nel 2017 una ricerca condotta negli Stati Uniti e in Cina guidata dal professore di marketing della Jon M. Huntsman School of Business (Utah State University) Aaron R. Brough è giunta a conclusioni sorprendenti: gli uomini, anche quando sensibili a tematiche ambientali, temono che comportamenti ecologicamente responsabili ledano la loro immagine di maschi.

Finalmente la scienza rende giustizia ai femminismi dichiarando che c’è una cosa che noi donne sappiamo fare meglio: la raccolta differenziata.

La ricerca della Utah State University ha indagato infatti la relazione tra ecostenibilità e percezione della femminilità, conducendo sette esperimenti su un campione di oltre 2000 partecipanti americani e cinesi.
Un esempio: ai partecipanti è stato chiesto di assegnare un grado di ‘femminilità’ a una persona che usa una borsa di tela, e poi a un’altra che usa un sacchetto di plastica. Sia gli uomini che le donne concordavano sul fatto che l’uso dell’alternativa più sostenibile (la tote bag) fosse più femminile, indipendentemente dal colore della borsa.
Le conclusioni di sette diversi esperimenti portarono i ricercatori a concordare sul fatto che sia le donne che gli uomini percepiscono prodotti, comportamenti e consumi eco-compatibili come più femminili.

Risulta quindi evidente che un ambiente patriarcale, in cui il binarismo vuole che i maschi vengano cresciuti in modo diverso dalle femmine e in cui ci si aspetta dai primi che siano meno sensibili, emotivi e compassionevoli, si riveli un problema nel momento in cui l’empatia è identificata come uno degli elementi chiave per una presa di responsabilità di fronte al cambiamento climatico, le cui conseguenze, peraltro, ricadono soprattutto sulla popolazione femminile: le donne rappresentano infatti la maggior parte della popolazione povera del mondo, subendo di conseguenza l’impatto maggiore quando si tratta di desertificazione e catastrofi naturali (UNDP, 2020).

In altre parole, lo stereotipo che legittima le norme culturali che definiscono cosa rende un uomo “uomo” (tratti come la dominanza, l’aggressività, la misoginia e l’omofobia) provoca un danno reale alla società intera – compresi gli uomini stessi.

Vi è una certa ironia in questo: proprio gli uomini, che il senso comune tende a considerare meno sensibili, sembrano essere particolarmente attenti quando si tratta di definire la loro identità di genere o di controllare il modo in cui questa viene percepita dall’esterno.

Se il pregiudizio è reale e si riflette costantemente, nei modi più inaspettati, sulla realtà che ci circonda, per fortuna ci sono persone che usano la creatività per smantellarlo, restituendoci a quei comportamenti che affrontano il tema dell’esercizio del potere e dell’identità di genere mettendone in discussione i meccanismi: un modo efficace per innescare una riflessione che ci renda tutti, semplicemente, esseri umani consapevoli.

Taryn Simon è un’artista multidiscliplinare che vive a New York. Le sue fotografie sono conservate in collezioni permanenti come quella del J. Paul Getty Museum di Los Angeles o del Metropolitan Museum of Art di New York. Nel 2001 ha vinto una Guggenheim Fellowship.
In uno dei suoi ultimi lavori, Paperwork and the Will of Capital (2015) esplora il concetto di ‘bouquet impossibile’. Comparso inizialmente nelle nature morte olandesi del XVII secolo, e riemerso parallelamente allo sbocciare del capitalismo moderno, il ‘bouquet impossibile’ esisteva in dipinti in cui si immaginano abbinamenti floreali inattuabili in natura – a causa di limitazioni stagionali o geografiche – anticipando quello che oggi è possibile ‘grazie’ a un mercato che soddisfa il desiderio del consumatore, indipendentemente dai limiti della natura.

Source image with botanist’s identifications, Memorandum of Understanding between the Royal Government of Cambodia and the Government of Australia Relating to the Settlement of Refugees in Cambodia. Ministry of Interior, Phnom Penh, Cambodia, September 26, 2014

Simon prende spunto dall’osservazione delle tavole dei potenti (sempre uomini) durante le firme di trattati importanti o di dichiarazioni di guerra: uno spazio spesso centrale è riservato a un grosso mazzo di fiori: un bouquet impossibile, appunto.
Insieme a una squadra di botanici l’autrice procede quindi all’identificazione di tutte le specie floreali presenti in queste improbabili composizioni, ne acquista alcuni esemplari in rete dalla società olendese Aalsmeer (che l’autrice definisce l’Amazon dei fiori) e riproduce i bouquet in studio.
Nella sua perfezione fotografica, Simon è chirurgica nel giudizio.

Taryn Simon, Paperwork and the Will of Capital (Gagosian & Hatje Cantz, 2016)
Taryn Simon, Paperwork and the Will of Capital (Gagosian & Hatje Cantz, 2016)

“Mi interessava l’idea di questi uomini che sentono di poter controllare l’evoluzione del mondo attraverso il linguaggio, le affermazioni, le carte che stanno per firmare”, spiega, “E la natura è proprio questa cosa castrata e decorativa che si trova in mezzo a loro”.
Il capitalismo – l’invenzione patriarcale più efficace che sia mai stata concepita – s’impone sulla natura per servire le tavole degli uomini più potenti del mondo, ai quali non interessa da dove provengono i fiori, né in quale stagione fioriscano o quali latitudini prediligano per sbocciare.

Mi chiedo se Donald Trump, quando nel 2019 dichiarò che gli Stati Uniti sarebbero formalmente usciti dall’accordo sul clima di Parigi (2015), rendendoli l’unico paese al mondo non partecipante al patto, avesse di fronte a sé un bouquet ‘impossibile’. Mi chiedo se quei fiori, ultimo simbolo di femminilità rimasto su una tavola globale devastata da discorsi sconsiderati abbiano ascoltato quelle parole incuranti del fatto che l’aumento di 3°C delle temperature globali porterà milioni di persone alla povertà estrema.
Nel lavoro di Simon, i fiori diventano testimoni degli insensati accordi che hanno attraversato la storia; raccontano di promesse disattese e di un sistema che è inevitabilmente destinato a non durare in eterno.

Kristine Potter è un’artista di Nashville, Tennessee che ha molto chiaro quanto l’ambiente registri i comportamenti umani e sociali, spesso in modo estremamente pericoloso.
Nei suoi due precedenti lavori l’autrice ha esplorato gli archetipi della mascolinità: The Gray Line si concentra sui giovani cadetti dell’esercito, Manifest sull’immaginario ‘occupante’ dell’occidente americano. Entrambe le serie ripercorrono la mitologia dell’uomo indomabile, del cowboy alla conquista del west.

Manifest è l’intenzionale troncatura di Manifest Destiny (Destino Manifesto), espressione della convinzione che l’espansione verso occidente (la conquista del west) fosse una vera e propria missione, nonché la giusta diffusione della democrazia.
Vi è un dipinto molto famoso che lo rappresenta. L’autore, John Gast lo chiamò Progresso Americano, e lo realizzò nel 1872. Nel quadro, una sorta di spirito guida femminile – allegoria del progresso -procede dall’Atlantico al Pacifico, portando luce e tecnologia, mentre allo stesso tempo spinge i nativi americani verso l’oscurità.

John Gast, American Progress, 1872

Nel costante intreccio di mito e storia si ripetono le dinamiche e gli eventi e, tristemente, pare che il ‘Destino Manifesto’ debba necessariamente sovrapporsi alll’assassinio di esseri umani e alla distruzione di ecosistemi.

Potter apre uno spiraglio coraggioso in questo scenario: ritraendo ‘uomini del west’ in pose insolite, non canonicamente maschili, ci insegna ad accettare l’esistenza anche nel sesso forte di una parte di legittima fragilità. Dandole spazio, l’autrice mina le fondamenta del ‘Destino Manifesto’ concedendoci una visione del mondo in cui, per sopravvivere, la forza e la violenza non sono più l’unica possibilità.

Dark Waters è l’ultimo corpo di lavoro dell’autrice, che scrive: “Dark Waters indaga la circolarità dell’intreccio tra natura e mito: così come un paesaggio minaccioso fa emergere una cultura della violenza, allo stesso modo una cultura violenta proietta la propria minaccia sul paesaggio”.
In effetti, i paesaggi ripresi dall’autrice risuonano del contesto patriarcale e violento in cui sono immersi. L’acqua e la terra diventano simbolo della cultura, conoscono a memoria i testi delle ballate che hanno ascoltato e ne rendono manifesti i significati mascherati anche dopo anni di silenzio.
Deep River (where Naomi was drowned), Break Neck, Hell for Certain, Poison Cove, sono solo alcune delle didasciale che Kristine Potter ha scelto: sonoi i nomi dei fiumi, dei luoghi, o la cronaca di fatti realmente accaduti.

Kristine Potter, Dark Water, from Dark Waters

Dark Waters si articola in tre passaggi: un concerto, le immagini di paesaggio e i ritratti in studio.
Nel video un presentatore invita gli spettatori a godersi la serata e introduce alcuni artisti; ciascuno intona una Murder Ballad. I testi dei brano sono violenti, spesso addirittura misogini: We went out for a little walk, / To a dark and lonely place, / And smashed it ‘crost her face (Siamo usciti per fare una passeggiata / Verso un luogo buio e solitario / E le ho spaccato la testa). Su queste note la Potter ci mostra meravigliose immagini di luoghi realmente segnati dalla violenza, alternati ai ritratti delle ragazze in studio: sembrano le protagoniste delle canzoni, tornate in vita più forti di prima. Ci guardano, qualche volta ci danno le spalle, non hanno più paura.

Kristine Potter, Pretty Polly, from Dark Waters

Kristine Potter parla in modo estremamente chiaro: quando la violenza pervade il territorio impara dalla natura la cecità. E’ a questo punto che nessuno, uomo o donna che sia, può più sentirsi al sicuro.

Melanie Bonajo è un’artista olandese che lavora con video, performance, installazioni, musica e fotografia. Nel 2021 rappresenterà l’Olanda alla Biennale di Venezia. Il suo lavoro si concentra su temi come l’erosione dell’intimità e l’isolamento in un mondo sempre più sterile e tecnologico. La sua pratica artistica è rappresentativa di una nuova generazione di creativi che fanno della comunità e dello scambio reciproco il loro punto di forza.

Melanie Bonajo, Night Soil, 2015

Collettivamente intitolato Night Soil, il suo ultimo progetto comprende una serie di tre brevi documentari che esplorano tre movimenti che tentano attivamente di contrastare o destabilizzare la pervasività del capitalismo globale e delle strutture patriarcali.
Night Soil esamina le sfaccettature socialmente ed eticamente progressiste di queste pratiche – alcune delle quali ancora oggi considerate illegali. Affermandosi con nuovi atteggiamenti e prospettive nei confronti della sessualità e del mondo naturale, l’approccio di Bonajo ai suoi soggetti sfida le tradizionali divisioni tra uomo, natura e tecnologia.

In una conversazione via mail mi scrive: ‘ Credo che la mascolinità tossica vada di pari passo con la cultura tossica. La femminilità tossica diventa spesso la risposta messa in atto di fronte a questo problema.’
Fake Paradise (il primo capitolo della trilogia) esamina la dimensione spirituale, sociale e guaritrice dell’ayahuasca (la grande madre, la liana dello spirito), pianta amazzonica con proprietà psichedeliche.
Navigando tra racconti personali di esperienze e prospettive indotte dall’assunzione di questa medicina, il video presta particolare attenzione alla voce femminile, tradizionalmente trascurata nella ricerca psichedelica e nella cultura popolare.

Ironicamente, il progetto si apre con la voce di Bonajo stessa, che letteralmente insulta lo sciamano a capo della seduta a cui partecipa. E’ un meccanismo di difesa che probabilmente molte donne conoscono: attaccare per prime per evitare di sembrare vulnerabili di fronte a uomini che vogliono mantenere il controllo.
In questo caso l’autrice si sbaglia: se si vuole accedere alle proprietà curative dell’ayahuasca è necessario affidarsi, non proteggersi più, arrivando a comprendere cosa, nella nostra vita, ha generato questa paura, questa ‘ferita di genere’.
In un continuo gioco di voli pindarici visuali Bonajo riesce a farci credere che non esiste alcun destino e che ognuno di noi può trovare il proprio strumento per depotenziare questa violenza. E non è sempre e solo inflitta dagli altri.

Melanie Bonajo, Night Soil, 2015

Bonajo trova il proprio strumento nel mondo naturale. Poco importa che sia simboleggiato da una pianta psichedelica, dai rapporti sessuali (come in ‘Economy of Love’, secondo capitolo della trilogia) o in un utilizzo pre-coloniale della terra ( ‘Nocturnal Gardening’). Ciascuno di questi tre documentari sperimentali esplora un fenomeno culturale al di fuori delle norme sociologiche e politiche della società dei consumi. Contraddicendo la progressione lineare del sistema capitalistico – e quindi anche la teoria del Destino Manifesto – costituisce un fenomenale meccanismo di resistenza.

L’intelligente intuizione di Taryn Simon le fece scegliere, tra tutti i bouquet ‘impossibili’ della storia, proprio quelli che avevano assistito alla firma di trattati poi disattesi. La caducità dei fiori si riflette nell’instabilità dei processi decisionali. Cosa resisterà di più?
Scavi archeologici hanno ritrovato fiori in tombe egizie di migliaia di anni fa: forse la risposta è evidente.

P.S.: a tutti gli uomini che prenderanno queste righe sul personale e si giustificheranno dicendo “io sono attentissimo nel fare la raccolta differenziata” vorrei dire: il tema è un pretesto e voi siete parte del problema.

 

Giorgia Zaffanelli ha 26 anni e abita a Milano.
Ha studiato fotografia all’Istituto Italiano di Fotografia, in concomitanza con il corso di Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali all’Università di Bologna.
La sua ricerca fotografica si focalizza su progetti a lungo termine, con particolare attenzione all’identità.
Da quasi due anni collabora con Micamera.